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Vita e parole di Maitre Philippe Il Vangelo di Maitre Philippe

Lamore di Dio è amore del prossimo

L’amore di Dio è in noi; per questo bisogna amare il prossimo e si amerà Dio dal profondo del cuore (25.9.1903).
Non dite che non amate Dio, non è vero. Dio è davanti a voi, in mezzo a voi, e voi non lo vedete; è persino nel vostro cuore, perché in voi vi è una scintilla divina. Come volete amare Dio che non vedete, dato che il vostro prossimo che voi conoscete, non l’amate? Non dite: «Dio mio, vi amo al di sopra di tutte le cose e il mio prossimo come me stesso per amore Vostro». Non è vero. Quando amerete il vostro prossimo, amerete Dio (1.5.1901).
Nessuno ama Dio se non ama il suo prossimo. Se qualcuno viene a chiedervi un paio di scarpe, quale che sia il suo aspetto, dategliele; dategli anche un cappello, una giacca e un paio di pantaloni, perché può essere Dio in persona (23.4.1902).
Vi ho detto spesso che basta una sola cosa per essere ascoltati da Dio: la carità (10.9.1893).

Lamore del prossimo

Qualunque sia la strada che prendete, non uscirete mai da questo cerchio di ferro: ama il tuo prossimo come te stesso (28.12.1894).
Amare il tuo prossimo, ti è forse impossibile? Fai allora come se l’amassi.
È difficile amare il prossimo come se stessi, eppure è facile: amate di meno voi stessi (18.6.1894).
Fate ciò che vi raccomanda continuamente il Vangelo: praticate la carità. Essa non consiste soltanto nel dare i vostri beni. Impedire che i peccati di una persona siano svelati è carità; sopportare coloro che non sono di vostro gusto, è ancora carità; rendere un servizio qualunque, prevenire un desiderio, è essere caritatevoli (14.3.1895).
Non mettete mai in ridicolo il vostro fratello, se volete che il Cielo vi accordi i suoi favori (24.2.1902).
Per non sbagliare, bisogna amare il prossimo come se stessi. Bisogna amarlo con completo disinteresse (11.3.1902).
L’amore del prossimo consiste, per essere completo, nell’amare tutti, i propri cari come gli estranei, senza distinzione. Noi non sappiamo se quella famiglia, che noi crediamo estranea, non sia la nostra (30.4.1895).
Dovete essere una provvidenza per tutti quelli che vengono da voi (31.3.1903).
Credetemi, quando fate del bene a qualcuno, o gli rendete un servizio, può essere che lo rendiate proprio a quella persona, ma è soprattutto a voi stessi, poiché vi sarà reso al centuplo ciò che avrete fatto (9.12.1895).
La forza che viene da Dio è data a coloro che praticano la carità (13.2.1902).

La solidarietà umana

Non siamo sulla Terra per essere felici; se abbiamo un po’ di felicità, è per farne profittare gli altri (3.2.1895).
Si prova della gioia quando si aiutano gli altri a portare un fardello (26.2.1902).
Lo sapete voi perché alcuni si dedicano agli altri? È perché altri si sono già dedicati a loro.
Non possiamo essere felici finché uno dei nostri fratelli è infelice.
Non si deve entrare in Cielo gli uni senza gli altri. Potete essere sicuri di una cosa, è che non potrete entrare in Cielo finché tutti i ritardatari non saranno stati condotti alla Luce, finché uno di noi soffre ancora nelle tenebre (14.11.1900).
Nessuno può entrare in Cielo se non ama il suo nemico come se stesso. E se quel nemico non entra in Cielo, neppure voi ci entrerete (20.9.1894).

La simpatia fraterna. Le cause dellantipatia

Bisogna frequentare gli esseri più repellenti e non disprezzare nessuno. Sarebbe offendere Dio, perché il suo soffio è in ogni essere (25.3.1895).
Io amo tanto un ladro quanto un uomo onesto, poiché nessuno di voi può gridare «Al ladro!». Non ce n’è uno che non abbia fatto più o meno torto ad un altro, né assolutamente nessuno che non abbia veramente mai fatto nulla ad altri (28.5.1902).
È l’orgoglio che produce l’antipatia. Due persone non sono antipatiche allo stesso grado, è l’inferiore che ha dell’antipatia per il superiore. Se quelle persone avessero lo stesso grado di progresso morale, non vi sarebbe alcuna antipatia tra loro, ma al contrario simpatia. Spesso è la materia e non lo spirito che è antipatica, occorre dunque che il superiore sia caritatevole verso l’inferiore (18.6.1895).
Bisogna vincere l’antipatia e lottare contro il sentimento che vi allontana da qualcuno.
Non fuggite la cattiva società. Aiutatela a diventare buona (3.3.1902).
Non bisogna temere di frequentare qualcuno più cattivo di noi. Ci si serve spesso di questo proverbio: “Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”. Questo proverbio non è molto giusto, perché non diventa cattivo che chi ha nel suo cuore il germe del male; stando a contatto con dei cattivi, quel male si sviluppa. Ma se la persona non avesse il male nel cuore, non farebbe mai il male È meglio tendere la mano alla persona che è caduta in un pantano e aiutarla ad uscire da lì, piuttosto che darle un calcio per farvela affondare di più (16.11.1893).

La compassione  ‑ La pietà

Se al momento di commettere un crimine l’assassino ha un attimo di compassione che lo arresta, il suo crimine gli viene perdonato e la vittima non ha più bisogno di essere assassinata.
Se un bambino di sei anni, nato col germe del crimine nel cuore, facesse una buona azione senza saperlo, come ad esempio salvare un cane, solo questo fatto gli impedirebbe di commettere un crimine. Quando si trovasse sul punto di commettere il suo crimine, o di colpire la sua vittima, dei cani appartenenti alla razza di quello che ha salvato si getterebbero su di lui, senza che egli li vedesse. In quel momento verrebbe preso da una specie di terrore e rinuncerebbe al suo crimine. Nell’esistenza successiva avrà meno voglia di uccidere; se egli soffoca quell’istinto ancora quella volta, in un’altra vita esso sarà meno forte, e finalmente la terza volta l’istinto non tornerà più. Da qui si vede che la più piccola buona azione è ricompensata al centuplo.

La bontà soccorrevole

È dovere del ricco di dare molto ai poveri e di chi non ha nulla di non invidiare il ricco, perché l’uno e l’altro mancherebbero di carità, e nessuno entrerà nel regno di Dio se non ha la carità. La fede non è nulla, senza la carità (7.5.1893).
Si dice spesso: «Oh, quella persona è buona, ha dato tale somma alla sua morte ecc…». Eh sì, l’ha lasciata perché non ha potuto portar via nulla; è da viva che avrebbe fatto bene a darla» (7.5.1893).
Se abbiamo qualche bene, è in sovrappiù. Dio ha detto: «La fortuna che ti do, la dividerai con la povertà».
Non bisogna preoccuparsi del pasto seguente, ma piuttosto se il vicino ha da mangiare (12.3.1902).

Leconomia benefica

Dio ha messo tutto ciò di cui abbiamo bisogno accanto a noi, per la vita materiale ma non dobbiamo sprecare nulla Nelle grandi case, quando i domestici sprecano la roba con la scusa che i padroni sono molto ricchi, hanno torto, perché un giorno saranno proprio loro ad aver fame, ma non avranno nulla da mangiare. Anche i padroni sono puniti per non aver fatto attenzione a ciò che avveniva da loro e per non aver usato il sovrappiù di quanto occorreva loro in opere di carità. Bisogna essere allo stesso tempo economi e generosi (28.5.1902).
Non dobbiamo gettar via nulla, né lasciar andare a male. Se lasciamo marcire della frutta, ne siamo responsabili. Non dobbiamo prenderne che quanta possiamo mangiarne, oppure dobbiamo lasciarla sull’albero perché possa servire di nutrimento agli uccelli, perché siamo responsabili di tutto ciò che facciamo (15.6.1895).
Se Dio ha messo nel vostro giardino del cibo per gli uccelli e voi uccidete quegli uccelli, verrà qualcuno che vi deruberà!
Si è colpevoli di gettare le molliche di pane della tavola, di spingere nel fango un pezzo di pane trovato sul marciapiede. Bisogna metterli in modo che un uccello o un cane affamato li trovi puliti e pronti. Ma l’orgoglio ci trattiene e ci impedisce di agire così.
Non dovete mai spingere un pezzo di pane col piede. Se ne vedete nell’immondizia, è vostro dovere raccoglierlo, metterlo sulla soglia della porta d’ingresso più vicina, pena di essere obbligati un giorno, per nutrirvi, di andare a cercarne nell’immondizia. E se qualcuno che non sa nulla, vedendovi raccogliere quel pezzo di pane, ride, un’altra persona, più progredita, penserà che è per i vostri animali, un’altra più progredita ancora, dirà: «Ah, ecco una persona che conosce il peso e il valore di ciò che fa» (23.12.1896).

La prodigalità illuminata

Come riconoscere la Luce nel cuore?
Quando vi è indulgenza quando darai, in uno slancio del cuore, a quelli che ti chiedono, senza curarti di ciò che sono.
Un padre ha tre figli. Uno è accorto, intelligente, conduce i suoi affari brillantemente, tutti lo stimano e lo invidiano. Anche il secondo lavora, ma a volte beve e spende un po’ di denaro; suo fratello, i suoi parenti e i suoi amici, lo notano e dicono male di lui a questo proposito. Il terzo infine è prodigo, tutto ciò che guadagna lo dona, lo spende. Se qualcuno ha bisogno di qualcosa, certo non si rivolgerà al primo, costui rifiuterebbe nell’interesse dei suoi figli e nel suo, e direbbe al questuante: «Fate come me, lavorate!». Può darsi che otterrebbe qualcosa dal secondo, ma non è sicuro, perché se ha un buon impulso, il pensiero della famiglia, dei suoi, lo tratterrà. Ma il terzo darà tutto ciò che gli verrà chiesto, e di buon cuore. Chi è il più ricco? Vi garantisco che è il prodigo, perché ha spezzato il vitello d’oro e ne ha sparse le particelle in un terreno che gli appartiene, dove germoglierà e darà frutti. Ma, intendiamoci, il prodigo può esserlo per ingenuità o debolezza; non è di quello che io parlo. Io parlo del prodigo che ha la conoscenza, che sa quello che fa, ciò che dà e perché lo dà. Infine vi è ancora una obiezione da confutare. L’uomo che chiede può non essere meritevole, ma ciò non ci riguarda: noi diamo per noi, e non per lui, perché giudicheremmo, e con che diritto?

Lelemosina spontanea

Oh, lo so, si fa tutto ciò che si può, al momento opportuno, e ci si accorge tutt’a un tratto che si sarebbe potuto fare di più, perché la carità consiste nello spogliarsi. Dopo aver fatto atto di carità, se un istante dopo si presenta un individuo che non faccia buon uso di ciò che gli viene dato, e gli si chiude la porta, gli si rifiuta l’aiuto dicendo: «Oh, non vale la pena, per quello che ne fa»… Si commettono così due atti reprensibili: uno contro la carità, un altro contro i comandamenti di Dio, che vietano di giudicare il prossimo (10.6.1897).
Se qualcuno viene a chiederci e noi sappiamo che questa persona non ha bisogno, noi dobbiamo dare, poiché ci chiede: dobbiamo dare senza guardare, senza preoccuparci; se ha bisogno ci chiede, questo ci deve bastare. Se non fa un buon uso di quello che le diamo, s’impadronisce del bene di un altro, perché toglie il pane ad un altro sfortunato, cioè a qualcuno che potrebbe averne bisogno e, in seguito, passerà per la stessa strada (20.3.1895).
Il mendicante che impiega male l’elemosina è responsabile del torto che ha fatto ad un vero povero e di qualcosa ancora, che non può pagare. Ma il donatore è scagionato (21.4.1903).

La beneficenza nascosta

Quando fate l’elemosina, fatela nell’ombra e senza attendere una ricompensa dal Cielo, perché se avete questo pensiero vi pagate da soli. Ma fate l’elemosina con bontà, come una cosa dovuta ad un fratello (29.3.1903).
La mano destra deve ignorare quello che dà la mano sinistra, vale a dire che, se facciamo del bene, è inutile gridarlo dai tetti (10.5.1893).
Fate il bene, ma in modo che nessuno lo sappia. Se un contadino sparge delle sementi, deve ricoprirle di terra per farle germogliare (27.4.1893).
Il bene deve essere fatto nell’ombra. Se lavoriamo perché il nostro fratello lo sappia, lo veda, siamo abbastanza ricompensati in tal modo (28.3.1895).
Che vogliono dire queste parole: «Accumulate dei tesori con delle ricchezze ingiuste»? Quando qualcuno ci fa una cattiveria e conosciamo quella persona, potremmo sorprenderla mentre ci fa il torto. Ma se la lasciamo fare senza dire nulla a nessuno, conservando la cosa per noi, è un tesoro acquisito con delle ricchezze ingiuste. Bisogna fare il bene nell’ombra perché ci venga contato (13.4.1898).
Il bene fatto in maniera nascosta e messo nell’ombra diventa ereditario (20.2.1895).

Il buon esempio

Non si raggiunge l’effetto parlando: vale più dare il buon esempio.
Risponderemo alla violenza con la dolcezza, e tutte le volte che lo potremo, cercheremo con i nostri consigli, e soprattutto con i nostri esempi, di far rientrare in sé quelli che sono esaltati (9.7.1894).
Se il vostro vicino è violento e vi fa del male, fategli vedere che non vi vendicherete, che gli perdonerete, e in tal modo lo disarmerete; fate ciò che potrete per ricondurlo al bene (9.6.1895).
Supponiamo che diamo una cena. Vi sono molti invitati; di essi due non vengono, hanno fatto sapere, un momento prima di mettersi a tavola, di non attenderli. I loro coperti sono messi. A quel punto due poveri si presentano e chiedono da mangiare. Bisognerebbe, per essere sulla buona strada, invitare queste due persone a cena, dar loro i due posti lasciati liberi dagli assenti e dire: «È Dio che vi manda, siate i benvenuti». È possibile che questo irriti qualche persona tra gli invitati, ma purché si faccia piacere a Dio, ciò basta. Si può fare il bene con l’esempio. Purché una o due persone degli invitati possano mettere a profitto ciò che è stato loro mostrato, è sufficiente; gli altri avranno il tempo di farlo in seguito, poiché ciò che è stato loro mostrato non può andare perduto. C’è sempre qualcuno che trae profitto dai buoni esempi (9.3.1896).
Dimmi cosa c’è nel fondo del cuore e io ti dirò se l’uomo deve passare per quella strada oppure no. Per esempio: un uomo trova l’ubriachezza sulla sua strada e non vuol bere, sia per timore di ciò che la gente dirà, sia per tema di nuocere alla sua salute, sia infine per non dare il cattivo esempio. Ebbene, nell’ultimo caso, non dovrà più passare per quella strada.

La mansuetudine

Rendiamo sempre il bene per il male; non vogliamone a quelli che lo fanno a noi, perché essi sono ben sfortunati, non sanno quello che fanno e noi non sappiamo ciò che siamo stati (5.11.1889).
Se qualcuno dei nostri nemici ha bisogno di un servizio, occorre renderglielo, preferendolo a chiunque altro, perché se si fa del bene ad un amico è probabile che questo amico ce ne sarà riconoscente, mentre se è qualcuno che ci ha fatto del male, sarà meravigliato che noi gli facciamo del bene, poiché, avendoci egli fatto del male, non conta su di noi: è di conseguenza il solo modo per ricondurlo al bene.
Se veniamo aggrediti per la strada, difendiamoci, pariamo i colpi; non bisogna colpire o uccidere. Nessuno è mai stato attaccato se non l’ha meritato lui stesso.
Se il vostro vicino oltrepassa il vostro confine, non citatelo in tribunale. Il Cielo saprà bene indennizzarvi e far produrre alle vostre terre la differenza del raccolto perduto.
Chi intenta un processo contro uno dei suoi fratelli e lo vince, porta da quel momento il marchio della Bestia, perché ha dato da mangiare alla Bestia, l’ha nutrita. Avviene lo stesso per tutti quelli che hanno testimoniato per lui. E se quell’uomo va poi a passeggiare davanti alla casa di quello che ha perso la causa e dice: «Ho vinto», vantandosene, ah, ve lo garantisco, non andrà in Cielo che quando avrà passato la stessa cosa (5.12.1894).
Se qualcuno vi ruba qualcosa, dategli molto di più di quanto vi ha preso. Se qualcuno vi fa un torto, perdonategli, ed io vi assicuro che Dio vi renderà dalla porta ciò che sarà uscito dalla finestra (8.11.1894).
Un ladro s’introduce in casa vostra e voi lo sorprendete mentre vi sta portando via qualche oggetto. Invece di denunciarlo alla polizia, ditegli: «Amico mio, quest’oggetto è vostro, portatevelo via». Quell’uomo sarà colpito dal vostro atteggiamento e forse si convertirà. Non vi fosse che una possibilità su cento che egli si converta, o che un ladro su cento venga migliorato, questo giustificherebbe un tale atteggiamento.
Non bisogna uccidere né punire i malfattori. Non si ha il diritto di uccidere una lepre che mangia i nostri cavoli, un uccello che mangia il nostro grano, un ladro che prende la nostra uva. Dio ha forse voluto che quell’uva servisse a quell’uomo e che quel grano fosse per quegli uccelli. Si può ucciderli, ma verrà un giorno in cui non avremo più cavoli o grano.
Se un dipendente ruba e il suo superiore o il suo direttore s’accorge del furto commesso ai danni della ditta, deve far chiamare il suo impiegato, e quando è solo con lui fargli notare di sapere che ha preso qualcosa e poi mettere nella cassa il valore corrispondente al furto. Se l’impiegato continua, lo deve far chiamare ogni volta e mettere la somma, finché l’impiegato non si corregga (14.11.1900).

Il perdono delle offese

Nessuno potrà entrare in Cielo se non ha ricevuto il perdono di colui che egli ha offeso e, l’affermo davanti a Dio, nessuno potrà incontrare sulla sua strada uno di coloro che hanno il potere di sciogliere ciò che è stato legato, se non ha versato molte lacrime, se non si è pentito. Per arrivare dall’altra parte occorre, se mi posso servire di questa espressione, un setaccio. Lo stesso per venire da questa parte. Ma lasciando l’altra parte non si può sempre portare in questa tutto ciò che si vorrebbe. Però vi giuro che, per andare da questo mondo nell’altro, occorre lasciare ogni cosa, e solo il bene che si sarà fatto sarà portato con sé (30.11.1893).
Vi confermo che l’assoluzione non ha valore che se colui che avete offeso non ha perdonato; se un uomo, solo con un bambino, dicesse a quel bambino: «Tu sei un bugiardo», sarebbe un insulto se fosse vero ma, se non fosse vero, bisognerebbe che ricevesse il perdono di quel bambino per entrare in Cielo, così come il perdono dei testimoni. Ma non ce n’erano, direte voi. Disilludetevi: c’erano lì presenti forse più di duecento persone invisibili, davanti alle quali il perdono deve essere pronunciato. Non siamo mai soli (12.9.1893).
Vi sono due persone molto unite dall’amicizia, una terza viene a dividerle bruscamente. È così che agisce un coltello, o una falce, sulla carne. Perché la piaga non si richiude subito? È che le molecole hanno ancora davanti ai loro occhi quell’essere odioso, quell’individuo che è venuto a strapparle le une dalle altre. Ripassate il coltello nella piaga, le molecole vedranno in lui, questa volta, un combattente, un aiuto che viene a scacciare ciò che le faceva soffrire: l’immagine primitiva che, senza di ciò, sarebbe durata fino alla morte delle cellule, si cancella, le carni si riprendono, la piaga guarisce. Così è anche nella vita.
Non vi è esempio migliore di quello che Nostro Signore Gesù Cristo ci ha dato perdonando i suoi carnefici. Lui che non faceva che il bene e al quale sono state fatte patire tutte le ignominie possibili.
Dio non ci chiede che una cosa: amare il nostro prossimo, non avere alcuna idea di rancore o di vendetta. Perché dissotterrare i morti e ritornare sulle pene passate? Bisogna andare avanti, senza guardare indietro (12.9.1893).
Per amare il prossimo come se stessi bisogna prima non dire male, qualunque sia il torto o il male che abbiano potuto farci, poi bisogna dimenticare l’offesa, vale a dire gettare un velo sul passato. Supponiamo che il male sia una ferita che vi è stata fatta; se vogliamo che guarisca presto, bisogna curarla ora; il trattamento consiste nel non pensarci, e l’oblio fa sì che la ferita guarisca da sola (12.9.1894).
L’oblio è una specie di perdono. Perdonare colui che ci nuoce vuol dire spargere in lui il seme che un giorno produrrà il rimorso e il ritorno al bene.
Nella vita si progredisce senza posa, e man mano che progrediamo si cambia guida; da qui la necessità di fare la pace immediatamente con i propri nemici, perché offendendo il proprio nemico si offende la sua guida, e la pace non può essere fatta che tra i quattro. Altrimenti bisogna aspettare che, nella serie delle reincarnazioni, lo stesso periodo si riproduca affinché il perdono sia accordato. Occorre anche che l’offeso preghi per l’offensore. Se abbiamo offeso una persona, dobbiamo prendere con noi un testimone e andare a chiedere perdono. Se si rifiuta di perdonarci, ne prendiamo due e poi tre. Allora siamo scagionati e bisogna che colui che ha rifiutato cerchi per dei secoli la persona che era venuta a supplicarlo. Spesso ci si ritrova reincarnati l’uno accanto all’altro, senza riconoscersi.
Il perdono del Cielo non basta. Bisogna anche pagare il proprio debito. L’assoluzione non è che una soddisfazione, non saremo perdonati che dopo aver pagato (29.1.1902).
È da questa parte che bisogna pagare, perché ciò che è legato in Cielo sarà sciolto in Cielo e ciò che è legato sulla Terra sarà sciolto sulla Terra. Ad esempio, avete una causa con qualcuno. È il vostro vicino che la perde e voi la vincete. Credete forse che se morite la disputa sarà estinta? No. Bisognerà che ritorniate, finché non abbiate fatto la pace col vostro fratello, e ciò davanti a tanti testimoni, quanti ce n’erano al momento della causa. Per questo io vi dico: fate la pace in questo mondo, perché è molto difficile farla nell’altro, a meno che non troviate sulla vostra strada uno di coloro che hanno il potere di legare e di sciogliere.
Ma se avete dei rancori contro qualcuno, anche se avete ragione, dovete facilitare in tutti i modi quella persona a venire a chiedervi perdono, non per voi, ma per evitarle delle pene. Andate a tenderle la mano, sarà un dovere di carità.
La persona che vi ha offeso, quand’anche le perdonaste il male che vi ha fatto, deve soffrire, a meno che non chiediate per lei (aprile 1893).
È molto facile ottenere ciò che chiedete, voi lo potete come me; promettete soltanto di avere la carità e di non volerne a nessuno. Spesso avete dei rancori contro qualcuno, e per un tempo infinito quasi sempre gliene volete e dite: «La tale persona mi ha fatto questo!». Perché non lasciare da parte ciò che è passato e ritornare senza posa su una cosa sepolta? Non si risvegliano i morti. Anche se non dimenticate, non parlate a nessuno di quei rancori e cercate di dimenticare perdonando (20.7.1893).
Il nostro inferno sarà il rimorso: avremo il rimpianto di non aver fatto il bene, d’aver fatto questa o quella cosa al nostro simile, e non troveremo riposo che quando avremo espiato le nostre colpe. E per espiarle bisogna essere perdonati da colui che abbiamo offeso, perché nessuna colpa può essere espiata se non è perdonata (5.11.1889).

Labnegazione

Non bisogna difendersi dalle calunnie (26.4.1903).
Se i vostri vicini devono parlare male di qualcuno, che importa che si tratti di voi e che voi sopportiate per gli altri? (27.11.1894).
Chi ci sporca ci ripulisce, chi ci getta la pietra ci rende grandi.
Vi sono due cose alle quali chiudiamo la porta: sono il torto e la miseria. In effetti non abbiamo mai torto, ma se qualcuno ci fa un torto sappiamo bene recriminare, e dire: «Non capisco perché mi si fa torto, non ho fatto nulla per questo!». Eppure non è meglio che mi si faccia torto? Se accetto senza borbottare, questo prova che ho qualcosa di buono, e se vi è del buono in me, inevitabilmente il torto diventerà migliore. È lo stesso per la miseria. Se accettiamo la miseria per noi, se l’accogliamo presso di noi, essa non è presso il nostro vicino. È meglio che siamo noi ad essere in miseria, non fosse altro che per dare l’esempio.
Non cercate di discolparvi. È necessario che quelli che vi trascinano nel fango trascinino qualcuno, tanto vale che siate voi. Siatene contenti!
Essere condannati ingiustamente, cosa può importare? Duemila anni or sono hanno ben condannato ingiustamente il Signore.

Il sacrificio

È detto: «Molti sacrifici verranno offerti, ma pochi saranno accettati». Ciò dipende dal cuore col quale si offre. Così un ricco, donando molto, darà forse molto meno del povero, il quale darà poco ma di buon cuore. Non entreremo in Cielo che quando, donando qualcosa, non ci costerà nessuna fatica offrire quel dono (3.2.1896).
Non ci si deve tagliare un dito volontariamente, né farsi male in alcun modo, altrimenti dovremo pagare per questo. Ma se un uomo offre la sua vita per salvarne un altro, è giusto, e il bene procurato da quel sacrificio ricadrà su entrambi, vale a dire che i loro due angeli custodi entrano in comunicazione e si dividono il bene che è stato fatto.
Quante sofferenze sono necessarie per entrare in Cielo! Quante ne occorrono perché servano a qualcosa, e quante non servono a nulla! Bisogna lavorare ed esercitare le proprie gambe se si vogliono superare gli ostacoli. Come supererete i grandi se non potete scavalcare i piccoli? Dobbiamo conquistare la nostra volontà e diventare indipendenti, e non potremo esserlo che quando ameremo il nostro prossimo come noi stessi. Ecco allora davanti a voi la morte che sta colpendo il vostro nemico vi dite: «Oh, non farò nulla perché la morte falci!», ma in fondo non vi dispiace che sia il vostro nemico la messe. Se vi dicessero di dare al suo posto uno di quelli che vi sono cari, lo fareste? Ebbene, io conosco uno dei miei amici che l’ha fatto. Per amare il prossimo, bisogna sacrificargli tutto (21.9.1893).

La carità, Chiesa universale

È stato detto: «Fuori della Chiesa, nessuna salvezza». Ciò è vero. Ma la Chiesa è universale; la Chiesa è la carità. Fuori della carità, nessuna salvezza (17.2.1902).

Tutte le religioni si fonderanno in una sola: quella della carità (13.1.1897).
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